Tim sapeva che se fosse andato avanti così sarebbe morto.
Ma chi era intorno a lui preferiva ignorare la sua volontà, convincerlo a continuare tour estenuanti da 300 date l’anno nonostante lui gridasse di impazzire di stress, ansia e dolore fisico.
Tim è Tim Bergling, superstar dell’elettronica morto suicida a 28 anni in Oman lo scorso 20 aprile.
Da dieci era Avicii, dj di fama mondiale, idolo da Ibiza a Osaka, genio creativo per Nile Rodgers e Chris Martin.
Il suo nome a molti non dice nulla, ma da sette anni i suoi pezzi sono tra i più passati anche dalle nostre radio.
La sua vita dagli esordi all’apice del successo è raccontata nel documentario Avicii: true stories, disponibile su Netflix dall’autunno 2017.
Un documentario che visto oggi, dopo la scomparsa del dj è una raccolta di avvertimenti di Bergling al suo entourage.
Era lui stesso a spiegare con compostezza che quella vita era diventata abominevole. Un buco nero.
Il documentario inizia con i filmati originali di dieci anni fa, quando Tim è un ragazzo che scarica un programma per comporre musica elettronica.
Si diverte, ci gioca, si appassiona.
Inizia a spedire fino a cinque demo a settimana a chi nel settore conta qualcosa.
Lo notano e inizia l’ascesa.
Parte con Arash Pournouri, un signor nessuno e grande arrampicatore che diventa suo manager, nonché compositore e produttore esecutivo dei suoi più grandi successi.
Iniziano insieme quando Avicii ha 17 anni e lui 26.
Il dj è ingenuo, timido.
Il contrario di Pournouri: spregiudicato nelle trattative con le case discografiche, ossessionato dai soldi.
Nel documentario si autodefinisce anche il consigliere di Tim, quello a cui lui si rivolge per i consigli sulla vita.
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