Intervista a Abdul "The Duke" Fakir
Cinquanta anni fa è nata la casa discografica che sdoganò nelle classifiche la black music.
Per decenni una gigantesca fabbrica di successi, ha cambiato la faccia del pop americano, è stata viatico di rivoluzioni sociali, specchio di una società in mutamento, cartina di tornasole della questione razziale.
Eppure stiamo parlando «solo» di una casa discografica.
La Motown Records compirà a gennaio 50 anni e ricordarla significa evocare un pezzo di storia. Immersa nel cuore industriale dell'America degli anni 50, nella «motor city» di Detroit, la Motown è stata la prima etichetta di enorme successo interamente gestita da afroamericani.
Al giovane compositore e pugile mancato Berry Gordy bastarono 800 dollari in prestito dalla famiglia per avviare il sogno.
A quei tempi a tanti afroamericani non andava giù che in cima alle classifiche ci fosse quel tizio bianco di nome Elvis che si faceva bello copiando la musica dei fratelli neri.
Certo, nei bassifondi newyorkesi ribolliva la stagione d'oro del jazz, Miles Davis dava alle stampe Kind of blue e Billie Holiday lasciava questa terra dopo averla resa più bella e dolente, ma nessuno aveva scalato le classifiche in maniera massiccia.
Ricorda bene quei tempi Abdul «the Duke» Fakir, l'ultimo superstite degli elegantissimi Four Tops, gruppo vocale di enorme successo e tra i più longevi della storia della Motown con i loro 50 anni di attività:
«era davvero una grande famiglia. E non c'erano rivalità. D'altronde eravamo diventati tutti giovani e ricchi, giravamo il mondo ed avevamo belle donne. Perché avrei dovuto invidiare Marvin Gaye (che peraltro era un ragazzo dolcissimo)? Anzi, ci ritenevamo fortunatissimi, parte di un grande progetto rivoluzionario, unico. Nessun afroamericano stava meglio di noi!».
I Four Tops erano compagni di scuola, venivano dal ghetto e nella Motown di Gordy trovarono il paradiso e anche l'amore: «Io sposai una delle Supremes ma era inevitabile perché stavamo sempre in tour e ci frequentavamo solo tra musicisti».
Anche grazie a questa organizzazione «da caserma» la Motown vinse imponendo un metodo che divenne un suono,un marchio di fabbrica.
Una fabbrica fatta di autori stipendiati per produrre hit (da Dozier e i due fratelli Holland a Ashford & Simpson) da distribuire ai vari talenti: i Miracles di Smokey Robinson, i Temptations, Marvin Gaye, le Supremes, Edwin Starr, Stevie Wonder, i Jackson Five solo per citarne alcuni.
Non sono state sempre rose e fiori.
L'hanno accusata di dirigismo.
Se non seguivi il modello eri fuori e solo superstar come un giovane Stevie Wonder o Marvin Gaye riuscirono ad imporre le loro scelte artistiche: «È una visione parziale - prosegue Fakir - nel nostro caso ad esempio ce ne stavamo tranquillamente in studio con i nostri autori Holland, Dozier e Holland a discutere sul da farsi. Anzi, diventammo grandissimi amici, eravamo una vera famiglia».
Ma si sa, le grandi famiglie hanno i loro scheletri nell'armadio e la Motown ha, tra gli altri, quello (secondo alcuni) di aver giocato la parte dello «zio Tom» della musica popolare, cioè di aver venduto la propria anima pur di compiacere il padrone (l'acquirente) bianco: «Non è così -
si scalda Fakir - anzi. Ci sentivamo parte non solo di un grande business ma soprattutto di una rivoluzione sociale, di costume. L'integrazione razziale è passata anche attraverso i successi della Motown, attraverso la nostra It's the same old song o attraverso What's goin'on di Marvin che i bianchi hanno comprato e che i neri hanno cantato».
La stessa Motown reagì all'accusa pubblicando negli anni 70 i discorsi di Martin Luther King.
Stokely Carmichael, Langston Hughes e Amiri Baraka, poi, dove era necessario, agendo per vie legali.
Ora l'America celebra la Motown con le compilation (Top 50 Motown tracks as voted by you della Universal è la prima), le festicciole a tema e i musical dove la sbiancata bellezza di una Beyonce viene strizzata dentro un vestitino anni 50 per tentare disperatamente di riprodurre la naturalezza delle Marvelettes.
Va strano il mondo: Fakir grida la sua gioia per il primo presidente afroamericano della storia mentre nella sua Detroit crolla la General Motors e la , vecchia Motown (assorbita in una multinazionale) continua a produrre musica che peró si chiama R&B, sorella ben più omologata e sbiadita di quel «profondo» soul inventato dalla Motown.
A guardarla da qui, oggi, la musica dei «figli» di Berry Gordy (il piccolo Stevie Wonder che esordisce tredicenne, l'esplosiva Diana Ross) ci appare come un filone d'oro conquistato da pionieri coraggiosi.
Ultima modifica di MAX DEEJAY il Lun 14 Apr 2014 - 20:38 - modificato 6 volte.