L’allegrezza del vinile
C’è stato un tempo in cui comprarmi un disco era una impresa finanziaria
epica. Era il tempo in cui i dischi erano grandi, neri e possenti. Era il tempo
che mettere un disco sul piatto era un rito sacrale, da praticare con religiosa
attenzione. Con il malloppo in mano si andava nel proprio negozio preferito e
dissimulando una consumata abitudine al gesto si chiedeva quel titolo che
sognavi di comprare da otto mesi. Il commesso lo tirava fuori da una siepe di
cartoni tutti uguali e variopinti, compatti come una colonna di lamine bronzee
abbattuta con cura. Era proprio lui, quella copertina là si era materializzata
davanti agli occhi come un miraggio dei molti pomeriggi uggiosi nella
penombra della mia cameretta. E adesso stava per essere consegnato nelle
mie proprie mani in cambio di pochi dobloni. Un velo impalpabile di pellicola
trasparente, forte e diafana a un tempo, lo rendeva inviolabile ad altre profani
mani che non fossero le mie e lo proteggeva contro un mondo crudele e
invidioso della sua fulgente beltà.
Dopo un viaggio periglioso, trascorso difendendolo da ogni attacco insidioso e
distruttivo del bambino maldestro sul bus o del vecchietto disarticolato sul
marciapiede, compiva l’ultimo tratto del suo vittorioso errare, fino a giungere
davanti al mio voglioso hi-fi. Come tutte le amanti spudorate, finiva subito
adagiato voluttuoso sul letto a guardarmi malizioso mentre lentamente mi
spogliavo del pesante montgomery. E via la sciarpa, e giù il cappello e fuori le
scarpe. Ero pronto al godimento profondo. Allora mi sedevo dolcemente e con
garbo lo brandivo sicuro e sapiente fra le vibranti mani, una a destra e una a
sinistra. Reclinando il capo all’indietro, finalmente lo guardavo con gli occhi
del conquistatore ancora una volta vittorioso. Era mio! Dopo un tempo di
interminabile contemplazione, mi facevo coraggio e davo inizio alla
profanazione. Indice e pollice della mano destra lentamente scorrevano il
bordo intorno fino a raggiungere l’angolo alto sinistro, con gesto maschio e
deciso laceravo un accenno di lembo e virilmente strappavo in un sol colpo la
cucitura della pellicola lungo l’intero spigolo. La copertina era pronta ad
essere svelata in tutta la sua luccicanza, e l’allegrezza cominciava da lì a
rigoglire impetuosa e libera. In un attimo la custodia era nuda e libera.
A quel punto iniziava la fase dei preliminari d’ascolto, una mano delicata
violava per la prima volta la grande fessura ovoidale che con una lieve
contrazione degli angoli si schiudeva nella inebriante fragranza effusiva del
profumo di cartone nuovo. E un cuore piatto e ampio si stagliava davanti a me
pieno di promesse. Era il momento di introdurre delicatamente due dita e
tirarlo fuori, così ancora protetto da fogli patinati lisci come la pelle liscia.
L’estrazione era un atto di puro piacere, in quel gesto si concentrava lo sfogo
di una brama antica, un senso di inebriante possesso m’infuocava le tempie e
la festa era solo iniziata.
Il momento diventava solenne ed era ora di accendere l’impianto. Il vinile
ancora pudico restava sul mio letto impaziente e agitato, mentre io mi
staccavo per preparare la danza che crea. Ora tutto era pronto, il coperchio
scoperto, il braccio alzato, il piatto pulito e la puntina senza cappuccio.
Tornavo al letto, con la sinistra ferma lo brandivo sicuro e con due dita della
destra penetravo delicatamente il velo di carta per stringere il bordo con le
punte delle dita più piccole che potevo fare. Stretto il bordo l’assetto
cambiava, il grande disco nero restava sospeso alle mie due piccole punte
mentre la carta impudica scivolava via giù, abbandonata al fluido dell’aria. Il
nero era veramente e interamente nudo. Un buco nell’esatto centro dei mille
cerchi non chiedeva altro che incontrare il suo fulcro, per iniziare a volteggiare
invasato. E così avveniva, nel battito di ali di farfalla il vinile era ben saldo in
assetto. Non restava altro che lasciarlo appena toccare dalla punta del
diamante, l’unico gioiello che poteva meritare. Un gesto secco avviava con
scatto il rotore e il volteggio delirante aveva inizio. Non c’era più nulla da fare,
se non abbassare con la cura d’un bisturi il braccio morbidamente rigido su
quel piano rotante infinito. Alzare il volume, spegnere la luce e scaraventarsi
in poltrona nel fuggente attimo del fruscio iniziale, che è il suono più dolce
ché prelude al sommo piacere dei timpani.
D’improvviso un suono immenso invadeva tutti gli angoli della stanza, e i vetri
e le poltrone e gli armadi, ogni cosa prendeva a suonare e un’ondata di
sognato piacere allagava la mente in un’estasi di commozione, senza lasciare
più spazio a null’altro che il suono, le mie orecchie e il resto del mondo là
fuori.
Fabrizio per Giovanna
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C’è stato un tempo in cui comprarmi un disco era una impresa finanziaria
epica. Era il tempo in cui i dischi erano grandi, neri e possenti. Era il tempo
che mettere un disco sul piatto era un rito sacrale, da praticare con religiosa
attenzione. Con il malloppo in mano si andava nel proprio negozio preferito e
dissimulando una consumata abitudine al gesto si chiedeva quel titolo che
sognavi di comprare da otto mesi. Il commesso lo tirava fuori da una siepe di
cartoni tutti uguali e variopinti, compatti come una colonna di lamine bronzee
abbattuta con cura. Era proprio lui, quella copertina là si era materializzata
davanti agli occhi come un miraggio dei molti pomeriggi uggiosi nella
penombra della mia cameretta. E adesso stava per essere consegnato nelle
mie proprie mani in cambio di pochi dobloni. Un velo impalpabile di pellicola
trasparente, forte e diafana a un tempo, lo rendeva inviolabile ad altre profani
mani che non fossero le mie e lo proteggeva contro un mondo crudele e
invidioso della sua fulgente beltà.
Dopo un viaggio periglioso, trascorso difendendolo da ogni attacco insidioso e
distruttivo del bambino maldestro sul bus o del vecchietto disarticolato sul
marciapiede, compiva l’ultimo tratto del suo vittorioso errare, fino a giungere
davanti al mio voglioso hi-fi. Come tutte le amanti spudorate, finiva subito
adagiato voluttuoso sul letto a guardarmi malizioso mentre lentamente mi
spogliavo del pesante montgomery. E via la sciarpa, e giù il cappello e fuori le
scarpe. Ero pronto al godimento profondo. Allora mi sedevo dolcemente e con
garbo lo brandivo sicuro e sapiente fra le vibranti mani, una a destra e una a
sinistra. Reclinando il capo all’indietro, finalmente lo guardavo con gli occhi
del conquistatore ancora una volta vittorioso. Era mio! Dopo un tempo di
interminabile contemplazione, mi facevo coraggio e davo inizio alla
profanazione. Indice e pollice della mano destra lentamente scorrevano il
bordo intorno fino a raggiungere l’angolo alto sinistro, con gesto maschio e
deciso laceravo un accenno di lembo e virilmente strappavo in un sol colpo la
cucitura della pellicola lungo l’intero spigolo. La copertina era pronta ad
essere svelata in tutta la sua luccicanza, e l’allegrezza cominciava da lì a
rigoglire impetuosa e libera. In un attimo la custodia era nuda e libera.
A quel punto iniziava la fase dei preliminari d’ascolto, una mano delicata
violava per la prima volta la grande fessura ovoidale che con una lieve
contrazione degli angoli si schiudeva nella inebriante fragranza effusiva del
profumo di cartone nuovo. E un cuore piatto e ampio si stagliava davanti a me
pieno di promesse. Era il momento di introdurre delicatamente due dita e
tirarlo fuori, così ancora protetto da fogli patinati lisci come la pelle liscia.
L’estrazione era un atto di puro piacere, in quel gesto si concentrava lo sfogo
di una brama antica, un senso di inebriante possesso m’infuocava le tempie e
la festa era solo iniziata.
Il momento diventava solenne ed era ora di accendere l’impianto. Il vinile
ancora pudico restava sul mio letto impaziente e agitato, mentre io mi
staccavo per preparare la danza che crea. Ora tutto era pronto, il coperchio
scoperto, il braccio alzato, il piatto pulito e la puntina senza cappuccio.
Tornavo al letto, con la sinistra ferma lo brandivo sicuro e con due dita della
destra penetravo delicatamente il velo di carta per stringere il bordo con le
punte delle dita più piccole che potevo fare. Stretto il bordo l’assetto
cambiava, il grande disco nero restava sospeso alle mie due piccole punte
mentre la carta impudica scivolava via giù, abbandonata al fluido dell’aria. Il
nero era veramente e interamente nudo. Un buco nell’esatto centro dei mille
cerchi non chiedeva altro che incontrare il suo fulcro, per iniziare a volteggiare
invasato. E così avveniva, nel battito di ali di farfalla il vinile era ben saldo in
assetto. Non restava altro che lasciarlo appena toccare dalla punta del
diamante, l’unico gioiello che poteva meritare. Un gesto secco avviava con
scatto il rotore e il volteggio delirante aveva inizio. Non c’era più nulla da fare,
se non abbassare con la cura d’un bisturi il braccio morbidamente rigido su
quel piano rotante infinito. Alzare il volume, spegnere la luce e scaraventarsi
in poltrona nel fuggente attimo del fruscio iniziale, che è il suono più dolce
ché prelude al sommo piacere dei timpani.
D’improvviso un suono immenso invadeva tutti gli angoli della stanza, e i vetri
e le poltrone e gli armadi, ogni cosa prendeva a suonare e un’ondata di
sognato piacere allagava la mente in un’estasi di commozione, senza lasciare
più spazio a null’altro che il suono, le mie orecchie e il resto del mondo là
fuori.
Fabrizio per Giovanna
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