Dopo aver annunciato il ritorno sulla scena musicale,dove mancava da diversi anni
questa è un'interessante intervista fatta da Giosuè Impellizzeri a Gianfranco Bortolotti, il fondatore della famosa Media Records.
costruire in breve l’epopea di Gianfranco Bortolotti non è affatto semplice, si corre sempre il rischio di omettere qualcosa di rilevante. Il primo disco, “I Don’t Want To Talk About It” di Hovoyds, lo incide nel 1983 per la Crash, ed è la cover di un brano prodotto negli Stati Uniti. Per qualche anno va avanti a forza di Italo Disco con fini ludici e con un gruppetto di amici, sino a quando, dopo una vacanza a New York, resta folgorato dalla House. È il 1987 e in scia a “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. realizza “Bauhaus”, il primo atto dei Cappella ed uno dei primissimi lavori che realizza sganciato dai vecchi amici. L’anno dopo è la volta di “Die Walküre” con cui “accende” il progetto 49ers. Nel contempo fonda la sua etichetta, la Media Records, che diventa un vero e proprio baluardo della Dance in tutte le sfumature. La prima hit planetaria è “Touch Me” dei 49ers (1989) a cui segue “Don’t You Love Me” del 1990, l’anno della consacrazione (the year of the consecration è il messaggio promosso ripetutamente sui 12″ della label): entrambi vengono menzionati tra i brani che sanciscono l’affermazione dell’Italo House detta anche Spaghetti House (talvolta in senso dispregiativo) nel mondo, insieme a Black Box, Double Dee, FPI Project e Sueño Latino. Parallelamente Bortolotti presta attenzione allo stile che in quegli anni pare antitetico alla House, la Techno, che rende commercia(bi)le. Parte così il progetto Antico (quello di “We Need Freedom”), Anticappella (“2v231″ è un successo in Inghilterra) ed una fitta serie di produzioni convogliate sulla Pirate Records (su tutte Mig 29). Il motore della Media Records inizia a carburare e varie etichette vengono piazzate sotto il suo “ombrello”: dalla Baia Degli Angeli (un tributo all’omonima discoteca di Gabicce reso possibile dall’ex direttore del locale, Diego Leoni, che diventato socio di Bortolotti nella Media Records riesce ad ottenere l’autorizzazione dai proprietari del club per l’uso del nome e del marchio) alla GFB, dalla Inside alla Signal passando per Marton & Media (una joint venture con Claudio Cecchetto nata per promuovere i DJ di Radio DeeJay), Underground, Whole ed Heartbeat, quest’ultima istigata da un collettivo di DJ formato da Andrea Gemolotto, Leo Mas, Claudio Coccoluto, Luca Colombo, Flavio Vecchi, Ricky Montanari e Ralf. Bortolotti mette su un team toyotisticamente organizzato (un po’ come fa Jacques Fred Petrus ai tempi della Goody Music Productions) in cui figurano DJ, compositori, arrangiatori, musicisti, fonici ed ingegneri del suono, tutti al lavoro su una mole incredibile di produzioni che vengono esportate in ogni angolo del pianeta. Nel primo lustro dei Novanta il tridente d’attacco è rappresentato da 49ers, diventati un gruppo prima con la voce di Dawn Mitchell e poi con quella di Ann-Marie Smith, Cappella, che da progetto da studio si trasforma in uno degli act più popolari dell’Eurodance con hit milionarie remixate persino da Carl Cox, Tall Paul, Armand Van Helden e Todd Terry, e Club House, che nel 1991 si afferma ovunque con la versione di “Deep In My Heart” a firma David Morales. Non sono da meno i successi di Francesco Zappalà (con la tripletta “I Need You” – “We Gotta Do It” – “No Way Out”), Fargetta, DJ Professor, Sharada House Gang ed East Side Beat. Il periodo è propizio per lanciare il proprio organo di stampa ufficiale, il magazine WOM (World Of Media), ed iniziative curiose come la raccolta punti attraverso bollini adesivi allegati ai dischi. Dal 1995 in poi, intuendo l’evoluzione che avrebbe riguardato la figura del disc jockey, Bortolotti trasforma la Media Records nella “casa discografica dei DJ”. Concretizza l’idea attraverso un’altra etichetta, la risorta BXR, e schiera un team che annovera, tra gli altri, Gigi D’Agostino, Mauro Picotto, Mario Più, Joy Kitikonti, Saccoman, Bismark, Ricky Le Roy, Tony H, Massimo Cominotto, Francesco Farfa (a cui viene affidata la direzione artistica della Audio Esperanto), Pagano, i compianti Athos e Tillmann Uhrmacher, Marco Zaffarano, Fabio MC e Sandro Vibot. Alcuni di loro entrano nell’ambita Top 100 DJs stilata dal britannico DJ Mag, e ad oggi è ancora Mauro Picotto a detenere il primato dell’italiano che ha raggiunto la posizione più alta in assoluto (ottavo nel 2001). L’ambizione a fare sempre meglio trasforma la Media Records in un colosso di dimensioni epiche: con sedi dislocate in tutta Europa e negli Stati Uniti, diventa una sorta di major delle indipendenti. Nel gigantesco roster figurano addirittura Fiorello, Niccolò Fabi, Cattivi Pensieri e Fabio B. ossia il futuro Fabio Volo (“Volo” è proprio il titolo di uno dei suoi primi singoli), tutti su Media Italiana. La lungimiranza si evidenzia anche quando, nel 1996, Media Records diventa sponsor di Valentino Rossi, astro nascente del motociclismo nazionale in classe 125, e lo accompagna fino al titolo mondiale in classe 250. Inoltre, dopo il fallimento della Flying Records, Bortolotti rileva i diritti del marchio UMM che rilancia discograficamente nel 1998. In quello stesso periodo inizia a credere nella musica Trance pubblicando in Italia vari guru del genere (Art Of Trance, Ferry Corsten, Armin van Buuren, Tiësto, Above & Beyond, Marco V). Nel nuovo millennio mette sotto contratto Bob Sinclar per la Shibuya Records, omonima del locale inaugurato nel 2000 a Rezzato, che il sabato si trasforma in BXR Superclub e che all’interno annovera un ristorante giapponese con due cuochi nipponici provenienti dal Juliana’s, nota discoteca di Tokyo. L’idea di piazzare un ristorante in un club di musica elettronica («dove categorie, pensieri, etnie e culture si mescolano con vigore») viene ripresa qualche anno più tardi dal Cocoon Club di Sven Väth, a Francoforte. Sempre nel 2000 il bresciano si lancia nel campo della moda disegnando un’intera collezione di abbigliamento, la Gieffebi. Conscio dei radicali mutamenti che avrebbero stravolto da lì a breve il business discografico, Bortolotti si allontana gradualmente dalla Media Records per dedicarsi all’attività di architetto (gli interni dello Shibuya erano già disegnati da lui), e poi cede i diritti del repertorio ad altre società. La Media Records resta una delle etichette indipendenti più emblematiche a livello mondiale, e viene ricordata soprattutto per la sua prerogativa di anticipare i tempi su stili musicali, strategie promozionali (è tra le prime in Europa a vendere musica in formato MP3, ben quattro anni prima della nascita di Beatport, oltre e stringere una partnership con Omnitel per ascoltare musica dal telefonino) e di comunicazione. Di essa resta un catalogo immenso di dischi ed una mole impressionante di licenze (Prodigy, Speedy J, Felix, Baby D, Moby, Laurent Garnier, Agoria, WestBam, Marusha, Yello, Juno Reactor, DJ Energy, Mijk Van Dijk, Talla 2XLC, Taucher, Thomas Schumacher, AWeX, Lionrock, L.U.P.O., React 2 Rhythm, Praga Khan, Pascal Device, Banco De Gaia) che depongono a favore dello storico payoff “The Sound Of The Future”.
Sono trascorsi più di dieci anni da quando decidesti di abbandonare l’attività discografica per dedicarti a quella di architetto. In questo arco di tempo hai seguito l’evoluzione della scena, degli stili e del mercato?
Di anni ne sono passati quasi quindici: tra 2000 e 2002 ci fu una leggera compenetrazione tra il lavoro da produttore discografico ed architetto, ma mi preparavo a cambiare mestiere già dal 1999, dopo l’incontro con Shawn Fanning (uno dei creatori di Napster, ndr). Quando ho abbandonato la musica ero stomacato dagli eventi e dalle situazioni che si stavano creando, nonché deluso per la totale mancanza di collaborazione tra le etichette italiane. L’unica a non mostrarsi ostile fu la Irma di Umbi Damiani, che a differenza di tutte le altre offriva più novità sotto il profilo artistico. Le loro pubblicazioni erano contraddistinte da grande gusto e personalità. Poi non ho più seguito la scena europea e mondiale perché il lavoro di architetto mi ha portato via molto tempo obbligandomi a viaggiare in Russia, Ucraina e Siberia. La Media Records era presente in tutti i continenti e ci eravamo posti l’obiettivo di decostruirla cercando di non licenziare nessuno o perlomeno aiutarlo a trovare altri lavori o conquistare l’indipendenza. Non a caso sino al 2009 circa la struttura è rimasta operativa con Gigi D’Agostino. Di sicuro scandinavi ed olandesi ora spadroneggiano, e in merito a ciò ho una teoria ma non la svelo perché potrebbe indicare una possibile strategia per qualche etichetta. Indubbiamente il furore agonistico e il fervore creativo dei nordici, aiutati dall’esplosione dei festival e dalle etichette americane che hanno coadiuvato la loro espansione, è quello che oggi fa parlare di più.
Rivisitare la musica degli anni Novanta ed evolvere la mia idea della figura del DJ ha portato ottimi frutti, sia d’immagine che a livello economico. Mi piace l’EDM, se avessi continuato ad occuparmi di discografia probabilmente sarei arrivato anche io ad uno stile simile, del resto frasi ed armonie sono ispirate da quelle che componevano noi venti (e passa) anni fa. Sarebbe stata la mia naturale direzione, così come credo che i festival siano stati l’evoluzione del mio sogno cominciato con la rinascita della BXR nel 1995, la prima “casa discografica dei DJ”. Anzi, a dire la verità, l’idea di riunire i DJ in un’unica grande famiglia risale alla fine del 1991 quando creai Heartbeat. Era già nelle nostre corde pensare al DJ come una Rockstar. La musica Dance si è evoluta secondo una mappa che disegnai negli anni Novanta al fine di facilitare il lavoro ai promoter. Ai tempi i costi erano impressionanti, promuovere dischi nel mondo voleva dire spendere almeno un miliardo di lire all’anno, tra posta e telefono. Non c’erano internet, corrieri a basso prezzo ed MP3, quindi eri costretto a spedire il disco, comprare una confezione adatta per fare ciò (in quegli anni la Media Records spedisce i dischi in buste appositamente personalizzate coi propri marchi, ndr), telefonare per avere l’indirizzo, verificare l’arrivo e poi chiedere i feedback. Per limitare le spese creai una mappa del mondo divisa in quattro quadranti, e su un planisfero come quello di Mercatore contrassegnai le zone di maggior interesse. Dal punto di vista economico l’emisfero boreale era maggiormente appetibile. Pensando all’australe invece, mi viene in mente l’argentino DJ Dero e pochi altri. L’Africa era da escludere quasi a priori e solo qualcosa succedeva in Australia. Il nord era colorato di rosso e pian piano degradava nel blu andando a sud, creando effetto fading. Los Angeles e Las Vegas erano entrambe rosse, e il colore sfumava nel blu avvicinandosi all’Europa. Il rosso, colore potente ed aggressivo, era attribuito alla Techno, il blu alla House. Così mappai le aree in cui questi due generi funzionavano di più, in modo tale da spedire i dischi con razionalità. Le mie segretarie, che di musica non ne capivano niente, dovevano limitarsi a seguire la mappa dei colori per evitare di mandare dischi Techno nei posti in cui adoravano la House. Questa divisione esiste ancora oggi. La popolazione, a seconda del clima, temperatura ed educazione, assorbe generi musicali diversi. Ovviamente la House non manca al Nord e viceversa la Techno è diffusa anche al Sud, ma secondo una grezza divisione la fascia rossa si estende su e la blu sotto. Se fossi rimasto nella musica avrei contribuito all’evoluzione dei generi, l’obiettivo per me restava quello di esportare nel mondo le nostre idee e i miei DJ si sarebbero seriamente contraddistinti. Talvolta chi parla dei “successi commerciali” della Media Records lo fa con un po’ di disprezzo e snobismo, ma mi fanno ridere quelli che dicono di non voler essere commerciali: quando staccavo gli assegni ai DJ Techno vedevo brillare gli occhi degli snob House perché la differenza di zeri dai loro compensi era grandissima.
Solitamente la Media Records è l’esempio che viene citato come simbolo dell’ultimo vero successo globale dell’Italia in ambito Dance (vedi il recente commento di Pierpaolo Peroni in merito alla “djeopolitica”). Ma dopo la Media Records da noi non è successo davvero più niente?
Ringrazio Peroni per averci menzionato però non sono d’accordo nel chiamare i nostri “successi commerciali”. Non sarebbe un successo se non fosse commerciale, questo termine viene spesso usato (non nel caso di Peroni) dagli invidiosi per denigrare la qualità del risultato. Non trovo alcuna connotazione negativa nel termine “commerciale”, che dire allora dei “successi commerciali” di Mercedes, BMW, Ferrari, Rolex e di qualsiasi brand che nel mondo abbia trovato il suo spazio? Ritengo di essere stato il primo a produrre la “Techno commerciale” almeno venticinque anni fa («con “We Need Freedom” di Antico abbiamo fatto il disco del secolo, iniziammo a stamparlo nel gennaio 1991 e finimmo nel febbraio 1992», dall’intervista a Bortolotti raccolta da Carlo Antonelli e Fabio De Luca per il libro Discoinferno, 1995; il “gruppo” fu ospite persino di Pippo Franco su Rai Due nel programma Stasera Mi Butto, ndr). Dopo la Media Records c’è stato il vuoto totale ed assoluto, ma è anche vero che tutto il mondo ha sofferto per il devastante cambiamento, è riuscito a sopravvivere solo chi si è adattato. Gli unici a guadagnarci sono stati certi DJ che hanno pilotato il business nelle loro tasche, ma alla fine pochi sono molto ricchi e tantissimi molto poveri. Di nuovo ed interessante, in Italia, non è nato praticamente nulla, siamo stati invasi dal prodotto anglo-americano coi meccanismi di Spotify ed iTunes. Dove non ci sono soldi non ci sono successi, e dove non c’è controllo (con un valido A&R) non c’è qualità. Le etichette hanno la colpa di non essersi organizzate come all’estero per affrontare le nuove condizioni imposte dalle tecnologie. Il nuovo mondo è popolato da ragazzini che fanno un brano in due giorni e lo uploadano diffondendolo senza coscienza ed autocritica, tentando di affermarsi emulando le gesta di Paul van Dyk, Tiësto o Armin van Buuren. In questi anni ho visto alcuni dei miei DJ crollare e scomparire, ma in fondo qualcuno di loro non meritava il successo che aveva. Taluni hanno speculato sulla congiuntura favorevole tra Media Records ed anni Novanta, come Mario Più e Zicky Il Giullare, personaggi che godevano di attenzione e rispetto nei club ma fuori da quelle mura non avevano né arte né parte. Sono scomparsi dalla scena, tornando nella dimensione che gli spettava in funzione delle loro capacità artistiche ed imprenditoriali. Quel che mi ha dato più fastidio è l’esser stato criticato da loro e nel contempo aver assistito alla speculazione che questi DJ/vocalist prezzolati ed ormai dimensionati a livello regionale hanno fatto e fanno tuttora dei miei marchi e della memoria storica della Media Records, col fine di sopravvivere e mantenere il più a lungo possibile la posizione che si erano guadagnati in quegli anni, seppur a produrre i loro dischi fossimo io e Mauro Picotto. Dopo il mio abbandono nemmeno talenti come D’Agostino e lo stesso Picotto sono stati più in grado di produrre dischi di successo, ma critiche da Gigi e Mauro le accetto, perché li rispetto come credibili attori di questo mestiere. Al contrario, critiche, cattiverie e volgarità mosse da altri non le posso proprio lasciar passare. Per loro prima e dopo di me c’è solo il buio.
Recentemente artisti come Aloe Blacc e Portishead hanno lamentato (rispettivamente qui e qui) il fatto di non percepire riconoscimenti economici adeguati e proporzionali alla diffusione e al successo dei propri brani. Il concetto di guadagnare (a prescindere dal tanto o poco) vendendo la propria musica è da considerarsi definitivamente estinto? Ciò non potrebbe creare un cortocircuito che non invoglierebbe più i professionisti ad impegnare il proprio tempo e le proprie risorse artistiche ed economiche nella composizione di musica? O forse pensare di poter (ancora) vendere musica è un concetto del tutto anacronistico?
Vendere la musica è un fatto finito, compiuto, sostituito da altre forme di commercio intrinseco alle esibizioni dell’artista. Non verrà più venduto il master di un pezzo, potrebbe essere noleggiato come si fa con le automobili, una cosa simile peraltro l’aveva già tentata iTunes Match ma fallendo clamorosamente. Avere la musica gratis è nel destino dell’umanità, ed anche Apple sta arrendendosi al “free” con un servizio in streaming gratuito o sponsorizzato.
Da qualche tempo svariate testate, galvanizzate da cifre in ascesa, annunciano il ritorno in pompa magna del vinile (vedi su Rolling Stone, AdnKronos e Daily Mail), ma nel contempo qualcuno (come Neil Young qui, sostiene che si tratti solamente di una moda. Tu, che di dischi ne hai venduti diversi milioni nei decenni trascorsi, cosa ne pensi? Il disco, inteso strettamente come formato, può ancora rappresentare un modello di business?
La considero una moda passeggera, figlia dei tempi, una reazione, un disperato tentativo di resistere al cambiamento. Trovo più facile immaginare un futuro senza emozioni, senza ricordi e soprattutto senza strumenti per ricordare, come un grammofono, un giradischi, un bambolotto, un vinile o un qualsiasi oggetto che rechi con sé un’emozione. Il disco potrebbe rappresentare un mercato ma non quello principale. Qualcuno ha già pensato di proporre su vinile canzoni recenti, edite solo in digitale, ma credo sia un trend temporaneo su cui non poter impiantare un modello di business molto diverso dagli scambi e dai mercatini. Parlare di ciò mi ricorda una mia installazione che realizzai in occasione del Primo Salone della Musica di Torino. Dal nostro stand passarono oltre centomila visitatori tra studenti ed adulti, e qualcuno lo esplorò morbosamente (infatti per due mattine consecutive fu blindato dai carabinieri). Sulle pareti laterali di questo stand di oltre centocinquanta metri quadri avevo piantato vari tubi innocenti cromati retroilluminati attraverso cui si vedevano oggetti che evocavano emozioni (una radiolina del passato, giocattoli, etc) con lo scopo concettuale di immaginare come le fibre ottiche, di cui oggi tanto si parla, ci avrebbero avvicinato alle nostre emozioni ma in modo digitale. A sublimazione di tale concetto al centro dello stand posi due cubi di vetro blu attraverso i quali si intravedevano le silhouette di due ragazze. In quei cubi c’erano davvero due donne che potevano essere palpeggiate (e qui nacque il problema con un giudice di Torino che non comprese e chiamò i carabinieri) mediante dei fori nel vetro ma non direttamente con la mano bensì con un guanto attaccato alla struttura, con una percezione più fredda del tatto (di questa installazione esposta al Primo Salone della Musica dal 10 al 15 ottobre 1996 se ne parlò molto ai tempi, qui è contenuto un breve cenno, e la Media Records, in collaborazione con RTI Music, pubblica pure una compilation tematica, “La Donna In Scatola“, ndr). Quel che intendevo comunicare, penetrando nella coscienza di chi partecipava all’esperimento permeandone il subconscio, era che in futuro persino il sesso sarebbe stato virtuale, proprio come oggi è la musica, senza più il vinile, il rumble del giradischi, la puntina, la polvere nei solchi… insomma, musica pura ed impalpabile. L’economia di questo bellissimo gioco della musica a cui noi tutti partecipiamo dovrà essere ricercata da altre parti.
Escludendo il metodo legato al processo tecnologico, ritieni sia cambiato l’approccio che le giovani generazioni riservano alla composizione musicale? Spesso capita di leggere che i brani delle decadi passate siano molto più “veri” e ragionati rispetto agli attuali. Banali affermazioni da passatisti?
Le nuove generazioni sono prevalentemente ansiose ed insicure. L’ansia di eccellere e di fare successo senza saper aspettare e senza dimostrare capacità di sacrificio porta a svolgere tutto in modo superficiale, poco serio e non professionale. Di conseguenza ciò livella in basso la qualità del prodotto. Ho conosciuto ragazzi che accettavano di andare a suonare gratuitamente in una cantina in Corea pur di raccontare di aver fatto una serata così lontano, e così si illudevano di aver raggiunto il successo autogratificandosi davanti agli amici. L’ansia di incidere dieci brani alla volta e poi uploadarli su SoundCloud gioca a netto svantaggio della qualità. Poi c’è anche il mitomane che pretende di insegnare a chi ne sa molto più di lui. Credo sia questa la malattia di cui è affetta adesso la musica Dance, e non c’è ancora una medicina per i social network. In fin dei conti fare il DJ non costa molto, i ragazzini con un ego ipertrofico, un po’ lazzaroni ma certamente appassionati di musica, non hanno disciplina e creano falsi miti, immaginandosi ciò che non sono. Quest’ansia fa di loro più mostri che aspiranti artisti.
Non è certo mistero che oggi il marketing ricopra un ruolo fondamentale per raccogliere successo nella musica. Non che ieri non fosse così ma forse ora è più determinante. Credi dunque che ci siano fenomeni (tra i DJ di grido) gonfiati solo dall’hype, destinati ad eclissarsi presto perché privi di polpa artistica? Mi riferisco a Martin Garrix, Vinai, Merk & Kremont, Avicii, Nicky Romero, Afrojack, Hardwell, DVBBS, Deorro, Alesso, Zedd e comunque a tutte le giovani star che in qualche modo appartengono alla Pop/Dance “ediemizzata” di questi anni.
È indubbio che l’hype debba gonfiare un DJ e un suo successo, ma ritengo che il web marketing sia determinante più per confermare un artista che affermarlo per la prima volta. Per quanto ben marketizzato, se un prodotto è scarso difficilmente emerge. Per questo penso che la “produzione assoluta” sia ancor più importante del marketing, un buon prodotto si afferma da solo o magari con una piccola operazione pubblicitaria. Martin Garrix gode dell’attenzione di un popolo vastissimo di user, è giovane ed ha tutti i requisiti necessari ed ideali per affermarsi ancora, ma se nell’arco di due/tre anni non tirerà fuori pezzi all’altezza, scomparirà. Una volta giunti in alto è necessario sostenersi altrimenti si fa la fine dei tanti italiani che lavoravano con me e di cui abbiamo parlato prima, che sono spariti perché non avevano talento artistico ed imprenditoriale. Da star internazionali sono tornati ad essere fenomeni locali vivendo di memoria storica e gloria passata.
È difficile bocciare Moroder, se bocciassi lui dovrei bocciare anche me stesso. Mi auguro che il suo talento sia rimasto intatto e che riesca a produrre ancora cose fantastiche. Credo che dovrebbe occuparsi di quella che ho definito Future Techno, naturale antagonista della Future House.
So che ami più parlare del futuro che del passato, ma qualcosa di quel che avvenne nelle decadi trascorse dobbiamo pur dirla, anche per sfatare dei miti nati e cresciuti online. Tipo quello della Mediterranean Progressive, un filone battezzato dalla BXR nel 1995 la cui genesi viene attribuita spesso a Gigi D’Agostino (vedi Progressive Trance). Ad onor del vero però, il primo ad usare la “nomenclatura” Mediterranean Progressive fu Mauro Picotto per la sua “Bakerloo Symphony“. Chi coniò tale ceppo stilistico?
Questa domanda mi permette di fare ordine nelle memorie della bellissima avventura della Media Records, che magari un giorno raccoglieremo in un libro raccontando per filo e per segno tutto quel che accadde. Il termine Mediterranean Progressive fu approvato da me su suggerimento di Mauro o forse di Riccardo Sada dopo aver letto una recensione del vecchio amico Pete Tong. Il fine era di distinguerci da ciò che altri facevano nel Nord Europa. Per un fatto oggettivo l’Italia era (ed è) un Paese mediterraneo, quindi da lì nacque la fusione. Seppur Picotto fu il primo ad essere etichettato come DJ Mediterranean Progressive, il suo stile era tendenzialmente Techno, D’Agostino invece, essendo più melodico, finì col ricoprire ruolo di protagonista di questa corrente. L’idea straordinaria del “nuovo genere” di cui diventare portabandiera fu perfezionata dal nostro ufficio promozione che era molto competitivo. A tal proposito ricordo che alla Media Records esisteva una procedura rispettata cronometricamente per ogni disco. Tutte le settimane ci riunivamo una o due volte per definire i pezzi in uscita: a queste riunioni partecipavano tutte le figure professionali del team, da chi curava la promozione in radio e nei negozi a chi si occupava della comunicazione su giornali e sui primissimi siti internet, dai grafici ai copywriter, ed ognuno aiutava a sviluppare quello che poi divenne il nostro modo di lavorare e il nostro stile. Parlavamo di “salite programmate”, di “radio segmentate” (a seconda della tipologia di ascoltatori, fasce orarie e geolocalizzazione), di “radio sole” (quelle influenti nelle isole o località balneari) e di “radio neve” (quelle in montagna che contribuirono più di tutte a far esplodere il fenomeno D’Agostino all’estero), ed ancora di “radio rosse” e di “radio blu”, secondo la mappa di cui ho già parlato. Insomma, studiavamo i metodi per penetrare in profondità nel tessuto generazionale in ogni area del territorio italiano ed estero. Grazie agli ingegneri logistici stimammo il milione di contatti, certamente non con la precisione della Gallup o della Nielsen, ma riuscimmo ugualmente ad identificare quei pezzi per cui valeva la pena investire risorse. Non lasciavamo che i nostri dischi andassero in classifica casualmente, con la “salita programmata” organizzavamo giorno, settimana e persino l’ora in cui potesse suonare in tutte le radio. Nell’arco di otto/nove settimane ci prefiggevamo il fine di portarlo al numero uno, dalle emittenti più piccole a quelle nazionali, e spesso capitava persino di frenare il successo di alcuni dischi. Si rivelò una strategia efficace, come del resto lo furono la Mediterranean Progressive, la BXR, la Supertechno, Shibuya o la comunicazione mediante figure sacre in cui “remixavamo” aforismi di santi o saggi della storia dell’umanità per comunicare la nostra filosofia. Eravamo sempre orientati alle nuove tecnologie e ricordo che nei primi anni Novanta la SIP mi accusò di fare comunicazione digitale perché spedivamo centinaia di fax ma senza avere un contratto digitale.
In un forum, diversi anni fa, un utente anonimo sosteneva che tu abbia firmato in SIAE il 99% dei brani editi dalla Media Records (e dalle numerose sub-label) solo perché il boss ma senza aver mai messo il naso negli studi e quindi aver partecipato attivamente alla creazione degli stessi brani.
Stava affermando cose improprie (di persona gli avrei detto anche che era un vero idiota) e gli avrei portato una statistica oggettiva di quello che fu il mio apporto negli studi di registrazione. Nessuno tra tutti coloro che hanno lavorato con me in quegli anni è riuscito a raggiungere in modo indipendente, in termini di valore o dimensioni, lo stesso successo. È evidente pertanto che chi apportava idee strategiche ero io. Gli altri potevano avere l’idea iniziale, elaborarla o remixarla adeguatamente, ma nessuno di loro era in grado di terminare un disco in maniera eccelsa. Gli stessi Picotto e D’Agostino, che consideravo il mio braccio destro e sinistro, non riuscirono a ripetersi, figuriamoci molti altri che a loro confronto erano lustrascarpe. Probabilmente è stata l’invidia e la gelosia a spingere a fare quelle affermazioni nel forum di cui parli. Se avessi firmato una percentuale così alta di pezzi del repertorio Media Records sarei mostruosamente ricco. Ricordo con molto piacere ed entusiasmo che moltissimi miei collaboratori guadagnavano annualmente oltre centocinquanta/duecento milioni di lire in diritti SIAE. Io, più o meno, guadagnavo come loro, ma mi preoccupavo anche di ridistribuire equamente i punti: quando un pezzo veniva realizzato in più studi sacrificavo le mie quote pur di riconoscere a tutti una percentuale.
È arduo sceglierne solo tre nel catalogo di oltre cento dischi d’oro e platino della Media Records, e non è facile nemmeno individuare quelli che hanno determinato i pivot, ossia quei momenti di cambiamento nella storia dell’etichetta. Non necessariamente i bestseller o i più noti sono gli stessi che hanno cambiato la mia vita e quella della Media Records. Costretto a sceglierne tre opterei per “Bauhaus” e “U Got 2 Let The Music” dei Cappella e “Touch Me” dei 49ers. “Bauhaus” fu la chiave di volta nella mia carriera da produttore, il successo continentale da cui germogliò l’elemento determinante per la nascita della Media Records e che iniziò a lanciare lo stile italiano in Europa. Ero in vacanza negli States ed ascoltai “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. che mi colpì a tal punto da voler creare qualcosa di simile. Fu realizzato con tecnologia primitiva, avevamo cinque o sei campionatori Akai tra cui l’S612, ma non disponendo del MIDI tre persone erano costrette a spingere un pulsantino nello stesso istante. Registravamo su nastro a 24 piste, per poi editare con la taglierina ed attaccare con lo scotch. Le tastiere erano al 99% analogiche come del resto l’effettistica della Lexicon che costò un occhio della testa. Tra le poche macchine digitali di cui disponevamo c’era la Yamaha DX7. Il pezzo fu realizzato in una cantina dove era allestito lo studio (il 24th Street Studio in Via Sant’Emiliano, a Brescia, ndr) di cui sarei diventato socio e che poi avrei spostato in Via Martiri della Libertà. “Touch Me” è legato proprio al trasferimento di quello studio dalla cantina di Brescia a Roncadelle e alla nascita della Media Records che tutti ricordano, quella col logo storico per intenderci (a tal proposito val la pena ricordare che Bortolotti inventa la Media Record – senza s finale -, nel 1986, pubblicando pochi dischi col catalogo MDR e in cooperazione con altri editori; nel 1987 parte la numerazione MR ma il marchio si trasforma nel definitivo Media Records – con la s finale – solo nel 1989, con “Shadows” dei 49ers, ndr). Nacque circa un anno dopo “Bauhaus” e ad ispirarmi furono “Sueño Latino” dei Sueño Latino, per l’atmosfera intensa e mediterranea, e “French Kiss” di Lil’ Louis, per il disegno del basso. Indovinando i campionamenti vocali perfetti, “Touch Me” di Alisha Warren e “Rock-A-Lott” di Aretha Franklin, venne fuori un capolavoro, una hit indiscussa in Europa e in America (la Island Records prese in licenza sia il singolo che l’album, ed io stentavo a credere che Chris Blackwell in persona mi avesse prima faxato e poi telefonato per chiudere l’accordo!). Ora ricordo col sorriso la causa che intentarono contro di me, reo di aver “saccheggiato” i cataloghi della Arista e della RCA. A Londra, dove si tenne l’udienza, fui trattato come un ladro, un delinquente che rubava la musica di altri per produrre la propria. Sostenni che si trattava di un modo diverso di comporre ma i zelanti avvocati delle major mi guardavano quasi schifati per ciò che avevo commesso. Mi accontentai del 10% dei proventi, quindi economicamente non fu un grande risultato, però posso dire di essere stato tra i primi in Europa ad affrontare le conseguenze legali della nuova “maniera” di fare dischi. “U Got 2 Let The Music” invece è legato ad un aneddoto che in pochissimi conoscono: due transfughi della Media Records tentarono di mettersi in proprio fondando una nuova etichetta, la Aries Records, ma si ritrovarono in seria difficoltà pochi mesi dopo essersene andati. Pentiti della loro fuga, mi pregarono di aiutarli e salvarli dal fallimento, così affidai il compito a Vicky, la figlia del mio socio Diego Leoni, di gestire quell’azienda mentre chiudevamo i rapporti coi fornitori e i creditori e valutavamo il prodotto che avevamo ereditato. Tra i brani che avevano realizzato ne scovai uno che mi colpì e, seppur i miei collaboratori più stretti mi criticarono a lungo convinti che l’idea non avrebbe sortito buoni risultati, decisi che quello doveva essere il punto di partenza per il follow-up di “U Got 2 Know” dei Cappella. Così, dopo circa quindici/venti rimaneggiamenti, trovai la soluzione, il mixaggio adeguato, l’alchimia giusta e fu un massacro, top in tutto il mondo. A questi tre ne aggiungerei altri due: “Proximus” di Mauro Picotto, fondato su un’idea che mi balenò durante la serata di inaugurazione del BXR Superclub per poi essere sviluppata da Mauro il giorno dopo in studio, e “L’Amour Toujours” di D’Agostino, con cui Gigi divenne di fatto “il poeta della Dance” grazie ad una comunicazione ed un lavoro di pubbliche relazioni straordinari, un’organizzazione perfetta, un prodotto di qualità eccelsa, un gruppo coeso che lavorava alle spalle. Sono orgogliosissimo di tutto ciò, ricordo le lunghissime chiacchierate notturne con Gigi interrogandoci su temi che non avevano nulla a che fare con la musica bensì l’amicizia e i nostri rapporti del tempo. Sono stati gli anni più belli della mia vita, tolti famiglia, figli e le soddisfazioni per numerosi riconoscimenti. Gli anni della BXR e della NoiseMaker appartengono al periodo in cui vivevo le emozioni in modo più intenso, non li dimenticherò mai. Ps: tra gli altri dischi dell’immenso archivio della Media Records cito pure “Sucker DJ” di Dimples D, “Don’t You Want Me” di Felix e “Pullover” di Speedy J, non prodotti da me ma scoperti e pubblicati in Italia dal sottoscritto.
La forza della Media Records, come sottolineavi qualche risposta fa, risiedeva anche nel team, nel modus operandi del gruppo che creasti. Tra le accoppiate più fruttuose probabilmente quella formata da D’Agostino-Sandrini, che generò diverse hit internazionali. Nel post-Sandrini però D’Agostino non seppe ripetersi con la stessa efficacia: è lecito pertanto pensare che il merito di quei successi fu più del musicista che del DJ, o si trattò di semplice casualità?
Indubbiamente fu una coppia ben assortita ma da un punto di vista puramente artistico credo che il confronto non regga. Gigi è un artista completo, non solo come DJ. Ai tempi tecnicamente era più forte lui. Sandrini ha indubbiamente talento, seppur i suoi recenti pezzi non mi abbiano colpito alla stregua di quelli che realizzava con D’Agostino. Nella musica il risultato può dipendere dal grado di pretesa, potenza, immaginazione e condizionamento, fattori che intervengono quando un musicista come Sandrini incontra un creativo come D’Agostino. Ora non possiamo fare un confronto in quanto Gigi non produce musica da diverso tempo, ma se accadesse in futuro potremmo vedere chi tra i due fosse più influente sull’altro. Gigi è un campione del mondo, Sandrini (che mi farebbe piacere incontrare di nuovo) è stato il giusto partner ed ha certamente contribuito al suo successo, ma eviterei i paragoni.
In questa intervista, alla domanda se foste ancora in contatto, Gigi D’Agostino ride e risponde ironicamente: «Chi, quello dei fagioli?». Pare non corra più buon sangue tra voi due.
Come gli ho detto amichevolmente più volte, Gigi è legato alla mediterraneità, all’essere italiano tipico del golfo di Napoli, alle sue bellezze ma anche al carattere dei suoi abitanti (D’Agostino ha origini salernitane, ndr). Eruttivo come l’Etna, calmo come il mare in una bellissima giornata estiva, ironico come lo spirito della sua terra d’origine. Non abbiamo nessun tipo di problema, ci sono vicissitudini che accompagnano quasi sempre le rotture improvvise e delicate, e dopo quindici anni di lavoro insieme si può essere anche arrabbiati e delusi, ma queste cose passano e si dimenticano. Sono sicuro che se l’intervistatore gli chiedesse di nuovo questa cosa non risponderebbe più così. Il lavoro di produttore comprende pure improvvise “eruzioni”, dubbi e il bisogno di sfogarsi di un artista, ma tra di noi c’è sempre stima reciproca.
Chi è stato il più ingrato del tuo vecchio team?
“La riconoscenza è una malattia del cane non trasmissibile all’uomo” scriveva Antoine Bernheim. Questa regola vale anche per la Media Records. Molti di quelli che hanno lavorato con me, chi più chi meno, sono stati ingrati. Da coloro che si sono limitati a sfruttare i miei marchi e il mio nome nelle loro biografie a coloro che si sono fregiati di ciò che non avevano mai fatto, dimenticandosi pure di quello che gli fu dato. Di immune non c’è quasi nessuno. Poi il gradiente di irriconoscenza aumenta in base alla carenza di capacità artistiche ed imprenditoriali del soggetto. Oltre agli ingrati nel team ci sono stati pure un paio di traditori, gente dell’animo sporco che ancora oggi si vende come produttore dei vari Cappella, D’Agostino e chissà di quanti altri artisti. Personaggi che si spacciavano come miei partner, mentori, capi, o quelli a cui avevo persino rubato le idee. Più che ingrati li chiamerei infami, soprattutto coloro che si autocelebravano nonostante alla Media Records coprissero ruoli non determinanti o semplicemente marginali. Dopo averli cacciati non abbiamo subito nessun tracollo o scossone, anzi, fu come quando un cane si scrolla le pulci di dosso. Non cito i nomi per evitare di dare loro l’importanza che non si meritano, sono scomparsi nel nulla, con la loro infamia.
Qualcuno, qualche settimana fa, ti ha accusato di essere immodesto: credi di esserlo o di aver dato questa impressione attraverso le tue recenti dichiarazioni?
Forse sarò un po’ immodesto ma credo di non aver raccontato niente di diverso da quello che è successo, anzi in alcuni casi mi sono trattenuto tantissimo. È difficile essere modesti parlando della mia creatura, della mia storia, di un evento italiano nel mondo. Tutto ciò non fu affatto modesto. Sia chiaro: non ho intenzione di tornare a fare la Media Records, la mia sfida serve esclusivamente a finanziare un progetto che riguarda più l’hi-tech che la musica nello specifico. Certo, produrre musica mi diverte ancora e se mi riesce bene continuerò a farla, ma il Sound Of The Future che produrrò non sarà collegato alla Media Records. Non cerco continuità con quello che è stato, anzi vorrei tenere ben separati i tre momenti storici della mia vita. Non torno con l’obiettivo di metter su una nuova casa discografica o facendo lo sbruffone per i risultati che ho raggiunto nei decenni precedenti.
Basta gossip. Ti è mai venuta voglia di tornare ad investire sulla creatività, creando nuovi laboratori artistici come un tempo furono Audio Esperanto, Heartbeat o Sacrifice?
I laboratori mi sono sempre piaciuti, e alle etichette che hai citato aggiungerei pure la Media Records, intesa come label e non casa discografica, tra le prime a produrre House e “Techno commerciale”. Qualche tuo collega inglese ed americano mi ha indicato come iniziatore di questo fenomeno, naturalmente con le dovute distinzioni dalla Techno di Detroit, che peraltro a me non piaceva molto. Quel filone lo seguiva più attentamente Francesco Zappalà, bravissimo e grandissimo, che misi in squadra nel 1990, dopo averlo accompagnato a Londra ai campionati DMC che ci soffiarono politicamente. Fu vice campione del mondo ma moralmente vinse lui. Pure la BXR e successivamente la NoiseMaker erano laboratori sonori. Dopo aver abbandonato la musica ho proseguito l’idea del laboratorio in architettura, nella mia natura è insita la ricerca. Adoro le nuove idee ed ancor di più cercare di realizzarle. Ovviamente non tutte funzionano ma sono del parere che non puoi cambiare la tua vita senza tentare. Nel corso della mia esperienza di architetto ho fondato, con amici russi, una società di cui sono amministratore che si occupa di commercializzare nanotecnologie per l’agricoltura e l’inerte. Poi ho inventato le Smartshoes, le “scarpe intelligenti” (sono in trattativa con diverse multinazionali per la cessione del brevetto), la Molecoolar Music (tecnologia che permette di fruire musica direttamente dal telefonino con casse virtuali, tuttora in fase sperimentale), perfino la valigia con bilancia incorporata per ovviare alle norme imposte da compagnie aeree low cost come Ryanair ed easyJet, che ho brevettato e venduto ad una compagnia inglese. Tornando alla musica, cercherò di creare un mio sound, non so ancora se per farlo dovrò ricorrere ad ingegnosi strumenti del marketing, ma la mia idea di fondo è mettere insieme un gruppo di DJ con determinate specifiche culturali, che faccia un determinato suono, crei una determinata corrente e realizzi un obiettivo/evento fantastico che ho in mente da tanti anni. Ho già ventilato la cosa a quelli di ID&T.
questa è un'interessante intervista fatta da Giosuè Impellizzeri a Gianfranco Bortolotti, il fondatore della famosa Media Records.
costruire in breve l’epopea di Gianfranco Bortolotti non è affatto semplice, si corre sempre il rischio di omettere qualcosa di rilevante. Il primo disco, “I Don’t Want To Talk About It” di Hovoyds, lo incide nel 1983 per la Crash, ed è la cover di un brano prodotto negli Stati Uniti. Per qualche anno va avanti a forza di Italo Disco con fini ludici e con un gruppetto di amici, sino a quando, dopo una vacanza a New York, resta folgorato dalla House. È il 1987 e in scia a “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. realizza “Bauhaus”, il primo atto dei Cappella ed uno dei primissimi lavori che realizza sganciato dai vecchi amici. L’anno dopo è la volta di “Die Walküre” con cui “accende” il progetto 49ers. Nel contempo fonda la sua etichetta, la Media Records, che diventa un vero e proprio baluardo della Dance in tutte le sfumature. La prima hit planetaria è “Touch Me” dei 49ers (1989) a cui segue “Don’t You Love Me” del 1990, l’anno della consacrazione (the year of the consecration è il messaggio promosso ripetutamente sui 12″ della label): entrambi vengono menzionati tra i brani che sanciscono l’affermazione dell’Italo House detta anche Spaghetti House (talvolta in senso dispregiativo) nel mondo, insieme a Black Box, Double Dee, FPI Project e Sueño Latino. Parallelamente Bortolotti presta attenzione allo stile che in quegli anni pare antitetico alla House, la Techno, che rende commercia(bi)le. Parte così il progetto Antico (quello di “We Need Freedom”), Anticappella (“2v231″ è un successo in Inghilterra) ed una fitta serie di produzioni convogliate sulla Pirate Records (su tutte Mig 29). Il motore della Media Records inizia a carburare e varie etichette vengono piazzate sotto il suo “ombrello”: dalla Baia Degli Angeli (un tributo all’omonima discoteca di Gabicce reso possibile dall’ex direttore del locale, Diego Leoni, che diventato socio di Bortolotti nella Media Records riesce ad ottenere l’autorizzazione dai proprietari del club per l’uso del nome e del marchio) alla GFB, dalla Inside alla Signal passando per Marton & Media (una joint venture con Claudio Cecchetto nata per promuovere i DJ di Radio DeeJay), Underground, Whole ed Heartbeat, quest’ultima istigata da un collettivo di DJ formato da Andrea Gemolotto, Leo Mas, Claudio Coccoluto, Luca Colombo, Flavio Vecchi, Ricky Montanari e Ralf. Bortolotti mette su un team toyotisticamente organizzato (un po’ come fa Jacques Fred Petrus ai tempi della Goody Music Productions) in cui figurano DJ, compositori, arrangiatori, musicisti, fonici ed ingegneri del suono, tutti al lavoro su una mole incredibile di produzioni che vengono esportate in ogni angolo del pianeta. Nel primo lustro dei Novanta il tridente d’attacco è rappresentato da 49ers, diventati un gruppo prima con la voce di Dawn Mitchell e poi con quella di Ann-Marie Smith, Cappella, che da progetto da studio si trasforma in uno degli act più popolari dell’Eurodance con hit milionarie remixate persino da Carl Cox, Tall Paul, Armand Van Helden e Todd Terry, e Club House, che nel 1991 si afferma ovunque con la versione di “Deep In My Heart” a firma David Morales. Non sono da meno i successi di Francesco Zappalà (con la tripletta “I Need You” – “We Gotta Do It” – “No Way Out”), Fargetta, DJ Professor, Sharada House Gang ed East Side Beat. Il periodo è propizio per lanciare il proprio organo di stampa ufficiale, il magazine WOM (World Of Media), ed iniziative curiose come la raccolta punti attraverso bollini adesivi allegati ai dischi. Dal 1995 in poi, intuendo l’evoluzione che avrebbe riguardato la figura del disc jockey, Bortolotti trasforma la Media Records nella “casa discografica dei DJ”. Concretizza l’idea attraverso un’altra etichetta, la risorta BXR, e schiera un team che annovera, tra gli altri, Gigi D’Agostino, Mauro Picotto, Mario Più, Joy Kitikonti, Saccoman, Bismark, Ricky Le Roy, Tony H, Massimo Cominotto, Francesco Farfa (a cui viene affidata la direzione artistica della Audio Esperanto), Pagano, i compianti Athos e Tillmann Uhrmacher, Marco Zaffarano, Fabio MC e Sandro Vibot. Alcuni di loro entrano nell’ambita Top 100 DJs stilata dal britannico DJ Mag, e ad oggi è ancora Mauro Picotto a detenere il primato dell’italiano che ha raggiunto la posizione più alta in assoluto (ottavo nel 2001). L’ambizione a fare sempre meglio trasforma la Media Records in un colosso di dimensioni epiche: con sedi dislocate in tutta Europa e negli Stati Uniti, diventa una sorta di major delle indipendenti. Nel gigantesco roster figurano addirittura Fiorello, Niccolò Fabi, Cattivi Pensieri e Fabio B. ossia il futuro Fabio Volo (“Volo” è proprio il titolo di uno dei suoi primi singoli), tutti su Media Italiana. La lungimiranza si evidenzia anche quando, nel 1996, Media Records diventa sponsor di Valentino Rossi, astro nascente del motociclismo nazionale in classe 125, e lo accompagna fino al titolo mondiale in classe 250. Inoltre, dopo il fallimento della Flying Records, Bortolotti rileva i diritti del marchio UMM che rilancia discograficamente nel 1998. In quello stesso periodo inizia a credere nella musica Trance pubblicando in Italia vari guru del genere (Art Of Trance, Ferry Corsten, Armin van Buuren, Tiësto, Above & Beyond, Marco V). Nel nuovo millennio mette sotto contratto Bob Sinclar per la Shibuya Records, omonima del locale inaugurato nel 2000 a Rezzato, che il sabato si trasforma in BXR Superclub e che all’interno annovera un ristorante giapponese con due cuochi nipponici provenienti dal Juliana’s, nota discoteca di Tokyo. L’idea di piazzare un ristorante in un club di musica elettronica («dove categorie, pensieri, etnie e culture si mescolano con vigore») viene ripresa qualche anno più tardi dal Cocoon Club di Sven Väth, a Francoforte. Sempre nel 2000 il bresciano si lancia nel campo della moda disegnando un’intera collezione di abbigliamento, la Gieffebi. Conscio dei radicali mutamenti che avrebbero stravolto da lì a breve il business discografico, Bortolotti si allontana gradualmente dalla Media Records per dedicarsi all’attività di architetto (gli interni dello Shibuya erano già disegnati da lui), e poi cede i diritti del repertorio ad altre società. La Media Records resta una delle etichette indipendenti più emblematiche a livello mondiale, e viene ricordata soprattutto per la sua prerogativa di anticipare i tempi su stili musicali, strategie promozionali (è tra le prime in Europa a vendere musica in formato MP3, ben quattro anni prima della nascita di Beatport, oltre e stringere una partnership con Omnitel per ascoltare musica dal telefonino) e di comunicazione. Di essa resta un catalogo immenso di dischi ed una mole impressionante di licenze (Prodigy, Speedy J, Felix, Baby D, Moby, Laurent Garnier, Agoria, WestBam, Marusha, Yello, Juno Reactor, DJ Energy, Mijk Van Dijk, Talla 2XLC, Taucher, Thomas Schumacher, AWeX, Lionrock, L.U.P.O., React 2 Rhythm, Praga Khan, Pascal Device, Banco De Gaia) che depongono a favore dello storico payoff “The Sound Of The Future”.
Sono trascorsi più di dieci anni da quando decidesti di abbandonare l’attività discografica per dedicarti a quella di architetto. In questo arco di tempo hai seguito l’evoluzione della scena, degli stili e del mercato?
Di anni ne sono passati quasi quindici: tra 2000 e 2002 ci fu una leggera compenetrazione tra il lavoro da produttore discografico ed architetto, ma mi preparavo a cambiare mestiere già dal 1999, dopo l’incontro con Shawn Fanning (uno dei creatori di Napster, ndr). Quando ho abbandonato la musica ero stomacato dagli eventi e dalle situazioni che si stavano creando, nonché deluso per la totale mancanza di collaborazione tra le etichette italiane. L’unica a non mostrarsi ostile fu la Irma di Umbi Damiani, che a differenza di tutte le altre offriva più novità sotto il profilo artistico. Le loro pubblicazioni erano contraddistinte da grande gusto e personalità. Poi non ho più seguito la scena europea e mondiale perché il lavoro di architetto mi ha portato via molto tempo obbligandomi a viaggiare in Russia, Ucraina e Siberia. La Media Records era presente in tutti i continenti e ci eravamo posti l’obiettivo di decostruirla cercando di non licenziare nessuno o perlomeno aiutarlo a trovare altri lavori o conquistare l’indipendenza. Non a caso sino al 2009 circa la struttura è rimasta operativa con Gigi D’Agostino. Di sicuro scandinavi ed olandesi ora spadroneggiano, e in merito a ciò ho una teoria ma non la svelo perché potrebbe indicare una possibile strategia per qualche etichetta. Indubbiamente il furore agonistico e il fervore creativo dei nordici, aiutati dall’esplosione dei festival e dalle etichette americane che hanno coadiuvato la loro espansione, è quello che oggi fa parlare di più.
Ti piace il nuovo scenario musicale che si è delineato?
Rivisitare la musica degli anni Novanta ed evolvere la mia idea della figura del DJ ha portato ottimi frutti, sia d’immagine che a livello economico. Mi piace l’EDM, se avessi continuato ad occuparmi di discografia probabilmente sarei arrivato anche io ad uno stile simile, del resto frasi ed armonie sono ispirate da quelle che componevano noi venti (e passa) anni fa. Sarebbe stata la mia naturale direzione, così come credo che i festival siano stati l’evoluzione del mio sogno cominciato con la rinascita della BXR nel 1995, la prima “casa discografica dei DJ”. Anzi, a dire la verità, l’idea di riunire i DJ in un’unica grande famiglia risale alla fine del 1991 quando creai Heartbeat. Era già nelle nostre corde pensare al DJ come una Rockstar. La musica Dance si è evoluta secondo una mappa che disegnai negli anni Novanta al fine di facilitare il lavoro ai promoter. Ai tempi i costi erano impressionanti, promuovere dischi nel mondo voleva dire spendere almeno un miliardo di lire all’anno, tra posta e telefono. Non c’erano internet, corrieri a basso prezzo ed MP3, quindi eri costretto a spedire il disco, comprare una confezione adatta per fare ciò (in quegli anni la Media Records spedisce i dischi in buste appositamente personalizzate coi propri marchi, ndr), telefonare per avere l’indirizzo, verificare l’arrivo e poi chiedere i feedback. Per limitare le spese creai una mappa del mondo divisa in quattro quadranti, e su un planisfero come quello di Mercatore contrassegnai le zone di maggior interesse. Dal punto di vista economico l’emisfero boreale era maggiormente appetibile. Pensando all’australe invece, mi viene in mente l’argentino DJ Dero e pochi altri. L’Africa era da escludere quasi a priori e solo qualcosa succedeva in Australia. Il nord era colorato di rosso e pian piano degradava nel blu andando a sud, creando effetto fading. Los Angeles e Las Vegas erano entrambe rosse, e il colore sfumava nel blu avvicinandosi all’Europa. Il rosso, colore potente ed aggressivo, era attribuito alla Techno, il blu alla House. Così mappai le aree in cui questi due generi funzionavano di più, in modo tale da spedire i dischi con razionalità. Le mie segretarie, che di musica non ne capivano niente, dovevano limitarsi a seguire la mappa dei colori per evitare di mandare dischi Techno nei posti in cui adoravano la House. Questa divisione esiste ancora oggi. La popolazione, a seconda del clima, temperatura ed educazione, assorbe generi musicali diversi. Ovviamente la House non manca al Nord e viceversa la Techno è diffusa anche al Sud, ma secondo una grezza divisione la fascia rossa si estende su e la blu sotto. Se fossi rimasto nella musica avrei contribuito all’evoluzione dei generi, l’obiettivo per me restava quello di esportare nel mondo le nostre idee e i miei DJ si sarebbero seriamente contraddistinti. Talvolta chi parla dei “successi commerciali” della Media Records lo fa con un po’ di disprezzo e snobismo, ma mi fanno ridere quelli che dicono di non voler essere commerciali: quando staccavo gli assegni ai DJ Techno vedevo brillare gli occhi degli snob House perché la differenza di zeri dai loro compensi era grandissima.
Solitamente la Media Records è l’esempio che viene citato come simbolo dell’ultimo vero successo globale dell’Italia in ambito Dance (vedi il recente commento di Pierpaolo Peroni in merito alla “djeopolitica”). Ma dopo la Media Records da noi non è successo davvero più niente?
Ringrazio Peroni per averci menzionato però non sono d’accordo nel chiamare i nostri “successi commerciali”. Non sarebbe un successo se non fosse commerciale, questo termine viene spesso usato (non nel caso di Peroni) dagli invidiosi per denigrare la qualità del risultato. Non trovo alcuna connotazione negativa nel termine “commerciale”, che dire allora dei “successi commerciali” di Mercedes, BMW, Ferrari, Rolex e di qualsiasi brand che nel mondo abbia trovato il suo spazio? Ritengo di essere stato il primo a produrre la “Techno commerciale” almeno venticinque anni fa («con “We Need Freedom” di Antico abbiamo fatto il disco del secolo, iniziammo a stamparlo nel gennaio 1991 e finimmo nel febbraio 1992», dall’intervista a Bortolotti raccolta da Carlo Antonelli e Fabio De Luca per il libro Discoinferno, 1995; il “gruppo” fu ospite persino di Pippo Franco su Rai Due nel programma Stasera Mi Butto, ndr). Dopo la Media Records c’è stato il vuoto totale ed assoluto, ma è anche vero che tutto il mondo ha sofferto per il devastante cambiamento, è riuscito a sopravvivere solo chi si è adattato. Gli unici a guadagnarci sono stati certi DJ che hanno pilotato il business nelle loro tasche, ma alla fine pochi sono molto ricchi e tantissimi molto poveri. Di nuovo ed interessante, in Italia, non è nato praticamente nulla, siamo stati invasi dal prodotto anglo-americano coi meccanismi di Spotify ed iTunes. Dove non ci sono soldi non ci sono successi, e dove non c’è controllo (con un valido A&R) non c’è qualità. Le etichette hanno la colpa di non essersi organizzate come all’estero per affrontare le nuove condizioni imposte dalle tecnologie. Il nuovo mondo è popolato da ragazzini che fanno un brano in due giorni e lo uploadano diffondendolo senza coscienza ed autocritica, tentando di affermarsi emulando le gesta di Paul van Dyk, Tiësto o Armin van Buuren. In questi anni ho visto alcuni dei miei DJ crollare e scomparire, ma in fondo qualcuno di loro non meritava il successo che aveva. Taluni hanno speculato sulla congiuntura favorevole tra Media Records ed anni Novanta, come Mario Più e Zicky Il Giullare, personaggi che godevano di attenzione e rispetto nei club ma fuori da quelle mura non avevano né arte né parte. Sono scomparsi dalla scena, tornando nella dimensione che gli spettava in funzione delle loro capacità artistiche ed imprenditoriali. Quel che mi ha dato più fastidio è l’esser stato criticato da loro e nel contempo aver assistito alla speculazione che questi DJ/vocalist prezzolati ed ormai dimensionati a livello regionale hanno fatto e fanno tuttora dei miei marchi e della memoria storica della Media Records, col fine di sopravvivere e mantenere il più a lungo possibile la posizione che si erano guadagnati in quegli anni, seppur a produrre i loro dischi fossimo io e Mauro Picotto. Dopo il mio abbandono nemmeno talenti come D’Agostino e lo stesso Picotto sono stati più in grado di produrre dischi di successo, ma critiche da Gigi e Mauro le accetto, perché li rispetto come credibili attori di questo mestiere. Al contrario, critiche, cattiverie e volgarità mosse da altri non le posso proprio lasciar passare. Per loro prima e dopo di me c’è solo il buio.
Recentemente artisti come Aloe Blacc e Portishead hanno lamentato (rispettivamente qui e qui) il fatto di non percepire riconoscimenti economici adeguati e proporzionali alla diffusione e al successo dei propri brani. Il concetto di guadagnare (a prescindere dal tanto o poco) vendendo la propria musica è da considerarsi definitivamente estinto? Ciò non potrebbe creare un cortocircuito che non invoglierebbe più i professionisti ad impegnare il proprio tempo e le proprie risorse artistiche ed economiche nella composizione di musica? O forse pensare di poter (ancora) vendere musica è un concetto del tutto anacronistico?
Vendere la musica è un fatto finito, compiuto, sostituito da altre forme di commercio intrinseco alle esibizioni dell’artista. Non verrà più venduto il master di un pezzo, potrebbe essere noleggiato come si fa con le automobili, una cosa simile peraltro l’aveva già tentata iTunes Match ma fallendo clamorosamente. Avere la musica gratis è nel destino dell’umanità, ed anche Apple sta arrendendosi al “free” con un servizio in streaming gratuito o sponsorizzato.
Da qualche tempo svariate testate, galvanizzate da cifre in ascesa, annunciano il ritorno in pompa magna del vinile (vedi su Rolling Stone, AdnKronos e Daily Mail), ma nel contempo qualcuno (come Neil Young qui, sostiene che si tratti solamente di una moda. Tu, che di dischi ne hai venduti diversi milioni nei decenni trascorsi, cosa ne pensi? Il disco, inteso strettamente come formato, può ancora rappresentare un modello di business?
La considero una moda passeggera, figlia dei tempi, una reazione, un disperato tentativo di resistere al cambiamento. Trovo più facile immaginare un futuro senza emozioni, senza ricordi e soprattutto senza strumenti per ricordare, come un grammofono, un giradischi, un bambolotto, un vinile o un qualsiasi oggetto che rechi con sé un’emozione. Il disco potrebbe rappresentare un mercato ma non quello principale. Qualcuno ha già pensato di proporre su vinile canzoni recenti, edite solo in digitale, ma credo sia un trend temporaneo su cui non poter impiantare un modello di business molto diverso dagli scambi e dai mercatini. Parlare di ciò mi ricorda una mia installazione che realizzai in occasione del Primo Salone della Musica di Torino. Dal nostro stand passarono oltre centomila visitatori tra studenti ed adulti, e qualcuno lo esplorò morbosamente (infatti per due mattine consecutive fu blindato dai carabinieri). Sulle pareti laterali di questo stand di oltre centocinquanta metri quadri avevo piantato vari tubi innocenti cromati retroilluminati attraverso cui si vedevano oggetti che evocavano emozioni (una radiolina del passato, giocattoli, etc) con lo scopo concettuale di immaginare come le fibre ottiche, di cui oggi tanto si parla, ci avrebbero avvicinato alle nostre emozioni ma in modo digitale. A sublimazione di tale concetto al centro dello stand posi due cubi di vetro blu attraverso i quali si intravedevano le silhouette di due ragazze. In quei cubi c’erano davvero due donne che potevano essere palpeggiate (e qui nacque il problema con un giudice di Torino che non comprese e chiamò i carabinieri) mediante dei fori nel vetro ma non direttamente con la mano bensì con un guanto attaccato alla struttura, con una percezione più fredda del tatto (di questa installazione esposta al Primo Salone della Musica dal 10 al 15 ottobre 1996 se ne parlò molto ai tempi, qui è contenuto un breve cenno, e la Media Records, in collaborazione con RTI Music, pubblica pure una compilation tematica, “La Donna In Scatola“, ndr). Quel che intendevo comunicare, penetrando nella coscienza di chi partecipava all’esperimento permeandone il subconscio, era che in futuro persino il sesso sarebbe stato virtuale, proprio come oggi è la musica, senza più il vinile, il rumble del giradischi, la puntina, la polvere nei solchi… insomma, musica pura ed impalpabile. L’economia di questo bellissimo gioco della musica a cui noi tutti partecipiamo dovrà essere ricercata da altre parti.
Escludendo il metodo legato al processo tecnologico, ritieni sia cambiato l’approccio che le giovani generazioni riservano alla composizione musicale? Spesso capita di leggere che i brani delle decadi passate siano molto più “veri” e ragionati rispetto agli attuali. Banali affermazioni da passatisti?
Le nuove generazioni sono prevalentemente ansiose ed insicure. L’ansia di eccellere e di fare successo senza saper aspettare e senza dimostrare capacità di sacrificio porta a svolgere tutto in modo superficiale, poco serio e non professionale. Di conseguenza ciò livella in basso la qualità del prodotto. Ho conosciuto ragazzi che accettavano di andare a suonare gratuitamente in una cantina in Corea pur di raccontare di aver fatto una serata così lontano, e così si illudevano di aver raggiunto il successo autogratificandosi davanti agli amici. L’ansia di incidere dieci brani alla volta e poi uploadarli su SoundCloud gioca a netto svantaggio della qualità. Poi c’è anche il mitomane che pretende di insegnare a chi ne sa molto più di lui. Credo sia questa la malattia di cui è affetta adesso la musica Dance, e non c’è ancora una medicina per i social network. In fin dei conti fare il DJ non costa molto, i ragazzini con un ego ipertrofico, un po’ lazzaroni ma certamente appassionati di musica, non hanno disciplina e creano falsi miti, immaginandosi ciò che non sono. Quest’ansia fa di loro più mostri che aspiranti artisti.
Non è certo mistero che oggi il marketing ricopra un ruolo fondamentale per raccogliere successo nella musica. Non che ieri non fosse così ma forse ora è più determinante. Credi dunque che ci siano fenomeni (tra i DJ di grido) gonfiati solo dall’hype, destinati ad eclissarsi presto perché privi di polpa artistica? Mi riferisco a Martin Garrix, Vinai, Merk & Kremont, Avicii, Nicky Romero, Afrojack, Hardwell, DVBBS, Deorro, Alesso, Zedd e comunque a tutte le giovani star che in qualche modo appartengono alla Pop/Dance “ediemizzata” di questi anni.
È indubbio che l’hype debba gonfiare un DJ e un suo successo, ma ritengo che il web marketing sia determinante più per confermare un artista che affermarlo per la prima volta. Per quanto ben marketizzato, se un prodotto è scarso difficilmente emerge. Per questo penso che la “produzione assoluta” sia ancor più importante del marketing, un buon prodotto si afferma da solo o magari con una piccola operazione pubblicitaria. Martin Garrix gode dell’attenzione di un popolo vastissimo di user, è giovane ed ha tutti i requisiti necessari ed ideali per affermarsi ancora, ma se nell’arco di due/tre anni non tirerà fuori pezzi all’altezza, scomparirà. Una volta giunti in alto è necessario sostenersi altrimenti si fa la fine dei tanti italiani che lavoravano con me e di cui abbiamo parlato prima, che sono spariti perché non avevano talento artistico ed imprenditoriale. Da star internazionali sono tornati ad essere fenomeni locali vivendo di memoria storica e gloria passata.
Come vedi il ritorno, in veste da DJ e da EDM producer, di Giorgio Moroder? Ti piace la sua nuova dimensione artistica (“Déjà Vu”, “Right Here, Right Now”, “74 Is The New 24″, “Racer”) o avrebbe fatto meglio a godersi la pensione? Anche lui è diventato un brand a tutti gli effetti, la Novation gli ha dedicato persino un sintetizzatore, il MoroderNova.
È difficile bocciare Moroder, se bocciassi lui dovrei bocciare anche me stesso. Mi auguro che il suo talento sia rimasto intatto e che riesca a produrre ancora cose fantastiche. Credo che dovrebbe occuparsi di quella che ho definito Future Techno, naturale antagonista della Future House.
So che ami più parlare del futuro che del passato, ma qualcosa di quel che avvenne nelle decadi trascorse dobbiamo pur dirla, anche per sfatare dei miti nati e cresciuti online. Tipo quello della Mediterranean Progressive, un filone battezzato dalla BXR nel 1995 la cui genesi viene attribuita spesso a Gigi D’Agostino (vedi Progressive Trance). Ad onor del vero però, il primo ad usare la “nomenclatura” Mediterranean Progressive fu Mauro Picotto per la sua “Bakerloo Symphony“. Chi coniò tale ceppo stilistico?
Questa domanda mi permette di fare ordine nelle memorie della bellissima avventura della Media Records, che magari un giorno raccoglieremo in un libro raccontando per filo e per segno tutto quel che accadde. Il termine Mediterranean Progressive fu approvato da me su suggerimento di Mauro o forse di Riccardo Sada dopo aver letto una recensione del vecchio amico Pete Tong. Il fine era di distinguerci da ciò che altri facevano nel Nord Europa. Per un fatto oggettivo l’Italia era (ed è) un Paese mediterraneo, quindi da lì nacque la fusione. Seppur Picotto fu il primo ad essere etichettato come DJ Mediterranean Progressive, il suo stile era tendenzialmente Techno, D’Agostino invece, essendo più melodico, finì col ricoprire ruolo di protagonista di questa corrente. L’idea straordinaria del “nuovo genere” di cui diventare portabandiera fu perfezionata dal nostro ufficio promozione che era molto competitivo. A tal proposito ricordo che alla Media Records esisteva una procedura rispettata cronometricamente per ogni disco. Tutte le settimane ci riunivamo una o due volte per definire i pezzi in uscita: a queste riunioni partecipavano tutte le figure professionali del team, da chi curava la promozione in radio e nei negozi a chi si occupava della comunicazione su giornali e sui primissimi siti internet, dai grafici ai copywriter, ed ognuno aiutava a sviluppare quello che poi divenne il nostro modo di lavorare e il nostro stile. Parlavamo di “salite programmate”, di “radio segmentate” (a seconda della tipologia di ascoltatori, fasce orarie e geolocalizzazione), di “radio sole” (quelle influenti nelle isole o località balneari) e di “radio neve” (quelle in montagna che contribuirono più di tutte a far esplodere il fenomeno D’Agostino all’estero), ed ancora di “radio rosse” e di “radio blu”, secondo la mappa di cui ho già parlato. Insomma, studiavamo i metodi per penetrare in profondità nel tessuto generazionale in ogni area del territorio italiano ed estero. Grazie agli ingegneri logistici stimammo il milione di contatti, certamente non con la precisione della Gallup o della Nielsen, ma riuscimmo ugualmente ad identificare quei pezzi per cui valeva la pena investire risorse. Non lasciavamo che i nostri dischi andassero in classifica casualmente, con la “salita programmata” organizzavamo giorno, settimana e persino l’ora in cui potesse suonare in tutte le radio. Nell’arco di otto/nove settimane ci prefiggevamo il fine di portarlo al numero uno, dalle emittenti più piccole a quelle nazionali, e spesso capitava persino di frenare il successo di alcuni dischi. Si rivelò una strategia efficace, come del resto lo furono la Mediterranean Progressive, la BXR, la Supertechno, Shibuya o la comunicazione mediante figure sacre in cui “remixavamo” aforismi di santi o saggi della storia dell’umanità per comunicare la nostra filosofia. Eravamo sempre orientati alle nuove tecnologie e ricordo che nei primi anni Novanta la SIP mi accusò di fare comunicazione digitale perché spedivamo centinaia di fax ma senza avere un contratto digitale.
In un forum, diversi anni fa, un utente anonimo sosteneva che tu abbia firmato in SIAE il 99% dei brani editi dalla Media Records (e dalle numerose sub-label) solo perché il boss ma senza aver mai messo il naso negli studi e quindi aver partecipato attivamente alla creazione degli stessi brani.
Stava affermando cose improprie (di persona gli avrei detto anche che era un vero idiota) e gli avrei portato una statistica oggettiva di quello che fu il mio apporto negli studi di registrazione. Nessuno tra tutti coloro che hanno lavorato con me in quegli anni è riuscito a raggiungere in modo indipendente, in termini di valore o dimensioni, lo stesso successo. È evidente pertanto che chi apportava idee strategiche ero io. Gli altri potevano avere l’idea iniziale, elaborarla o remixarla adeguatamente, ma nessuno di loro era in grado di terminare un disco in maniera eccelsa. Gli stessi Picotto e D’Agostino, che consideravo il mio braccio destro e sinistro, non riuscirono a ripetersi, figuriamoci molti altri che a loro confronto erano lustrascarpe. Probabilmente è stata l’invidia e la gelosia a spingere a fare quelle affermazioni nel forum di cui parli. Se avessi firmato una percentuale così alta di pezzi del repertorio Media Records sarei mostruosamente ricco. Ricordo con molto piacere ed entusiasmo che moltissimi miei collaboratori guadagnavano annualmente oltre centocinquanta/duecento milioni di lire in diritti SIAE. Io, più o meno, guadagnavo come loro, ma mi preoccupavo anche di ridistribuire equamente i punti: quando un pezzo veniva realizzato in più studi sacrificavo le mie quote pur di riconoscere a tutti una percentuale.
Quali sono i tre brani da te prodotti a cui sei più affezionato o a cui sono legati particolari ricordi e aneddoti?
È arduo sceglierne solo tre nel catalogo di oltre cento dischi d’oro e platino della Media Records, e non è facile nemmeno individuare quelli che hanno determinato i pivot, ossia quei momenti di cambiamento nella storia dell’etichetta. Non necessariamente i bestseller o i più noti sono gli stessi che hanno cambiato la mia vita e quella della Media Records. Costretto a sceglierne tre opterei per “Bauhaus” e “U Got 2 Let The Music” dei Cappella e “Touch Me” dei 49ers. “Bauhaus” fu la chiave di volta nella mia carriera da produttore, il successo continentale da cui germogliò l’elemento determinante per la nascita della Media Records e che iniziò a lanciare lo stile italiano in Europa. Ero in vacanza negli States ed ascoltai “Pump Up The Volume” dei M.A.R.R.S. che mi colpì a tal punto da voler creare qualcosa di simile. Fu realizzato con tecnologia primitiva, avevamo cinque o sei campionatori Akai tra cui l’S612, ma non disponendo del MIDI tre persone erano costrette a spingere un pulsantino nello stesso istante. Registravamo su nastro a 24 piste, per poi editare con la taglierina ed attaccare con lo scotch. Le tastiere erano al 99% analogiche come del resto l’effettistica della Lexicon che costò un occhio della testa. Tra le poche macchine digitali di cui disponevamo c’era la Yamaha DX7. Il pezzo fu realizzato in una cantina dove era allestito lo studio (il 24th Street Studio in Via Sant’Emiliano, a Brescia, ndr) di cui sarei diventato socio e che poi avrei spostato in Via Martiri della Libertà. “Touch Me” è legato proprio al trasferimento di quello studio dalla cantina di Brescia a Roncadelle e alla nascita della Media Records che tutti ricordano, quella col logo storico per intenderci (a tal proposito val la pena ricordare che Bortolotti inventa la Media Record – senza s finale -, nel 1986, pubblicando pochi dischi col catalogo MDR e in cooperazione con altri editori; nel 1987 parte la numerazione MR ma il marchio si trasforma nel definitivo Media Records – con la s finale – solo nel 1989, con “Shadows” dei 49ers, ndr). Nacque circa un anno dopo “Bauhaus” e ad ispirarmi furono “Sueño Latino” dei Sueño Latino, per l’atmosfera intensa e mediterranea, e “French Kiss” di Lil’ Louis, per il disegno del basso. Indovinando i campionamenti vocali perfetti, “Touch Me” di Alisha Warren e “Rock-A-Lott” di Aretha Franklin, venne fuori un capolavoro, una hit indiscussa in Europa e in America (la Island Records prese in licenza sia il singolo che l’album, ed io stentavo a credere che Chris Blackwell in persona mi avesse prima faxato e poi telefonato per chiudere l’accordo!). Ora ricordo col sorriso la causa che intentarono contro di me, reo di aver “saccheggiato” i cataloghi della Arista e della RCA. A Londra, dove si tenne l’udienza, fui trattato come un ladro, un delinquente che rubava la musica di altri per produrre la propria. Sostenni che si trattava di un modo diverso di comporre ma i zelanti avvocati delle major mi guardavano quasi schifati per ciò che avevo commesso. Mi accontentai del 10% dei proventi, quindi economicamente non fu un grande risultato, però posso dire di essere stato tra i primi in Europa ad affrontare le conseguenze legali della nuova “maniera” di fare dischi. “U Got 2 Let The Music” invece è legato ad un aneddoto che in pochissimi conoscono: due transfughi della Media Records tentarono di mettersi in proprio fondando una nuova etichetta, la Aries Records, ma si ritrovarono in seria difficoltà pochi mesi dopo essersene andati. Pentiti della loro fuga, mi pregarono di aiutarli e salvarli dal fallimento, così affidai il compito a Vicky, la figlia del mio socio Diego Leoni, di gestire quell’azienda mentre chiudevamo i rapporti coi fornitori e i creditori e valutavamo il prodotto che avevamo ereditato. Tra i brani che avevano realizzato ne scovai uno che mi colpì e, seppur i miei collaboratori più stretti mi criticarono a lungo convinti che l’idea non avrebbe sortito buoni risultati, decisi che quello doveva essere il punto di partenza per il follow-up di “U Got 2 Know” dei Cappella. Così, dopo circa quindici/venti rimaneggiamenti, trovai la soluzione, il mixaggio adeguato, l’alchimia giusta e fu un massacro, top in tutto il mondo. A questi tre ne aggiungerei altri due: “Proximus” di Mauro Picotto, fondato su un’idea che mi balenò durante la serata di inaugurazione del BXR Superclub per poi essere sviluppata da Mauro il giorno dopo in studio, e “L’Amour Toujours” di D’Agostino, con cui Gigi divenne di fatto “il poeta della Dance” grazie ad una comunicazione ed un lavoro di pubbliche relazioni straordinari, un’organizzazione perfetta, un prodotto di qualità eccelsa, un gruppo coeso che lavorava alle spalle. Sono orgogliosissimo di tutto ciò, ricordo le lunghissime chiacchierate notturne con Gigi interrogandoci su temi che non avevano nulla a che fare con la musica bensì l’amicizia e i nostri rapporti del tempo. Sono stati gli anni più belli della mia vita, tolti famiglia, figli e le soddisfazioni per numerosi riconoscimenti. Gli anni della BXR e della NoiseMaker appartengono al periodo in cui vivevo le emozioni in modo più intenso, non li dimenticherò mai. Ps: tra gli altri dischi dell’immenso archivio della Media Records cito pure “Sucker DJ” di Dimples D, “Don’t You Want Me” di Felix e “Pullover” di Speedy J, non prodotti da me ma scoperti e pubblicati in Italia dal sottoscritto.
La forza della Media Records, come sottolineavi qualche risposta fa, risiedeva anche nel team, nel modus operandi del gruppo che creasti. Tra le accoppiate più fruttuose probabilmente quella formata da D’Agostino-Sandrini, che generò diverse hit internazionali. Nel post-Sandrini però D’Agostino non seppe ripetersi con la stessa efficacia: è lecito pertanto pensare che il merito di quei successi fu più del musicista che del DJ, o si trattò di semplice casualità?
Indubbiamente fu una coppia ben assortita ma da un punto di vista puramente artistico credo che il confronto non regga. Gigi è un artista completo, non solo come DJ. Ai tempi tecnicamente era più forte lui. Sandrini ha indubbiamente talento, seppur i suoi recenti pezzi non mi abbiano colpito alla stregua di quelli che realizzava con D’Agostino. Nella musica il risultato può dipendere dal grado di pretesa, potenza, immaginazione e condizionamento, fattori che intervengono quando un musicista come Sandrini incontra un creativo come D’Agostino. Ora non possiamo fare un confronto in quanto Gigi non produce musica da diverso tempo, ma se accadesse in futuro potremmo vedere chi tra i due fosse più influente sull’altro. Gigi è un campione del mondo, Sandrini (che mi farebbe piacere incontrare di nuovo) è stato il giusto partner ed ha certamente contribuito al suo successo, ma eviterei i paragoni.
In questa intervista, alla domanda se foste ancora in contatto, Gigi D’Agostino ride e risponde ironicamente: «Chi, quello dei fagioli?». Pare non corra più buon sangue tra voi due.
Come gli ho detto amichevolmente più volte, Gigi è legato alla mediterraneità, all’essere italiano tipico del golfo di Napoli, alle sue bellezze ma anche al carattere dei suoi abitanti (D’Agostino ha origini salernitane, ndr). Eruttivo come l’Etna, calmo come il mare in una bellissima giornata estiva, ironico come lo spirito della sua terra d’origine. Non abbiamo nessun tipo di problema, ci sono vicissitudini che accompagnano quasi sempre le rotture improvvise e delicate, e dopo quindici anni di lavoro insieme si può essere anche arrabbiati e delusi, ma queste cose passano e si dimenticano. Sono sicuro che se l’intervistatore gli chiedesse di nuovo questa cosa non risponderebbe più così. Il lavoro di produttore comprende pure improvvise “eruzioni”, dubbi e il bisogno di sfogarsi di un artista, ma tra di noi c’è sempre stima reciproca.
Chi è stato il più ingrato del tuo vecchio team?
“La riconoscenza è una malattia del cane non trasmissibile all’uomo” scriveva Antoine Bernheim. Questa regola vale anche per la Media Records. Molti di quelli che hanno lavorato con me, chi più chi meno, sono stati ingrati. Da coloro che si sono limitati a sfruttare i miei marchi e il mio nome nelle loro biografie a coloro che si sono fregiati di ciò che non avevano mai fatto, dimenticandosi pure di quello che gli fu dato. Di immune non c’è quasi nessuno. Poi il gradiente di irriconoscenza aumenta in base alla carenza di capacità artistiche ed imprenditoriali del soggetto. Oltre agli ingrati nel team ci sono stati pure un paio di traditori, gente dell’animo sporco che ancora oggi si vende come produttore dei vari Cappella, D’Agostino e chissà di quanti altri artisti. Personaggi che si spacciavano come miei partner, mentori, capi, o quelli a cui avevo persino rubato le idee. Più che ingrati li chiamerei infami, soprattutto coloro che si autocelebravano nonostante alla Media Records coprissero ruoli non determinanti o semplicemente marginali. Dopo averli cacciati non abbiamo subito nessun tracollo o scossone, anzi, fu come quando un cane si scrolla le pulci di dosso. Non cito i nomi per evitare di dare loro l’importanza che non si meritano, sono scomparsi nel nulla, con la loro infamia.
Qualcuno, qualche settimana fa, ti ha accusato di essere immodesto: credi di esserlo o di aver dato questa impressione attraverso le tue recenti dichiarazioni?
Forse sarò un po’ immodesto ma credo di non aver raccontato niente di diverso da quello che è successo, anzi in alcuni casi mi sono trattenuto tantissimo. È difficile essere modesti parlando della mia creatura, della mia storia, di un evento italiano nel mondo. Tutto ciò non fu affatto modesto. Sia chiaro: non ho intenzione di tornare a fare la Media Records, la mia sfida serve esclusivamente a finanziare un progetto che riguarda più l’hi-tech che la musica nello specifico. Certo, produrre musica mi diverte ancora e se mi riesce bene continuerò a farla, ma il Sound Of The Future che produrrò non sarà collegato alla Media Records. Non cerco continuità con quello che è stato, anzi vorrei tenere ben separati i tre momenti storici della mia vita. Non torno con l’obiettivo di metter su una nuova casa discografica o facendo lo sbruffone per i risultati che ho raggiunto nei decenni precedenti.
Basta gossip. Ti è mai venuta voglia di tornare ad investire sulla creatività, creando nuovi laboratori artistici come un tempo furono Audio Esperanto, Heartbeat o Sacrifice?
I laboratori mi sono sempre piaciuti, e alle etichette che hai citato aggiungerei pure la Media Records, intesa come label e non casa discografica, tra le prime a produrre House e “Techno commerciale”. Qualche tuo collega inglese ed americano mi ha indicato come iniziatore di questo fenomeno, naturalmente con le dovute distinzioni dalla Techno di Detroit, che peraltro a me non piaceva molto. Quel filone lo seguiva più attentamente Francesco Zappalà, bravissimo e grandissimo, che misi in squadra nel 1990, dopo averlo accompagnato a Londra ai campionati DMC che ci soffiarono politicamente. Fu vice campione del mondo ma moralmente vinse lui. Pure la BXR e successivamente la NoiseMaker erano laboratori sonori. Dopo aver abbandonato la musica ho proseguito l’idea del laboratorio in architettura, nella mia natura è insita la ricerca. Adoro le nuove idee ed ancor di più cercare di realizzarle. Ovviamente non tutte funzionano ma sono del parere che non puoi cambiare la tua vita senza tentare. Nel corso della mia esperienza di architetto ho fondato, con amici russi, una società di cui sono amministratore che si occupa di commercializzare nanotecnologie per l’agricoltura e l’inerte. Poi ho inventato le Smartshoes, le “scarpe intelligenti” (sono in trattativa con diverse multinazionali per la cessione del brevetto), la Molecoolar Music (tecnologia che permette di fruire musica direttamente dal telefonino con casse virtuali, tuttora in fase sperimentale), perfino la valigia con bilancia incorporata per ovviare alle norme imposte da compagnie aeree low cost come Ryanair ed easyJet, che ho brevettato e venduto ad una compagnia inglese. Tornando alla musica, cercherò di creare un mio sound, non so ancora se per farlo dovrò ricorrere ad ingegnosi strumenti del marketing, ma la mia idea di fondo è mettere insieme un gruppo di DJ con determinate specifiche culturali, che faccia un determinato suono, crei una determinata corrente e realizzi un obiettivo/evento fantastico che ho in mente da tanti anni. Ho già ventilato la cosa a quelli di ID&T.